ORO CONFLICT FREE
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Il 1° gennaio del 2021, in tutta l'Unione Europea, è entrata in vigore il regolamento sui minerali provenienti da zone di conflitto. Il suo scopo è quello di cercare di contrastare il commercio illegale di stagno, tantalio, tungsteno e oro, i quattro minerali più spesso legati ai conflitti armati e alle relative violazioni dei diritti umani.
Lo spunto era stato dato da una legge approvata negli Stati Uniti nel luglio del 2010, la «Dodd-Frank Act» che, tra le altre cose, impegna le società specializzate nel settore dell’elettronica a dichiarare se i metalli utilizzati provenissero da paesi nei quali sono in corso conflitti. Benché la legge preveda solo l’obbligo di segnalare la provenienza delle materie prime, alcune società sono andate oltre decidendo di eliminare del tutto gli approvvigionamenti provenienti da quei paesi.
Tutto è nato diversi anni fa con i famosi, e famigerati, «Bloody Diamonds», ovvero i diamanti utilizzati da movimenti ribelli per finanziare la loro guerra contro governi legittimi (e tralasciamo quanto siano “legittimi” certi governi in Africa!), così come recita la «Risoluzione 55/56» (1° dicembre 2000) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Così, nel maggio del 2000, a Kimberley (Sud Africa) si tenne una conferenza allo scopo di sviluppare dei sistemi di controllo («Kimberley Process») sulla provenienza delle pietre e nel novembre del 2002 venne varato un protocollo di certificazione firmato da 37 paesi (tra i quali l’Italia). Sull’onda di questo impegno l’attenzione si è poi spostata su ogni materia prima che potesse risultare in qualche modo “insanguinata”.
Quali sono state le tappe principali che hanno reso possibile l’adozione di questa normativa?
- 2014: la Commissione Europea e l'Alta rappresentante dell'UE per gli affari esteri hanno proposto un approccio integrato dell'Unione per contrastare il commercio di minerali usati per finanziare i gruppi armati in zone di conflitto o ad alto rischio.
- 2015: il Parlamento Europeo ha adottato gli emendamenti alla proposta della Commissione.
- 2016: è stato raggiunto un accordo sui punti principali della normativa riguardanti i minerali provenienti da zone di conflitto fra la Commissione europea, il Parlamento Europeo ed il Consiglio dell'UE.
- 2017: Commissione europea, Parlamento Europeo e Consiglio dell'UE hanno adottato il testo giuridico del regolamento.
- 2021: il 16 febbraio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D. Lgs. 2 febbraio 2021 n. 13 denominato «Attuazione della delega al Governo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2017/821 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che stabilisce obblighi in materia di dovere di diligenza nella catena di approvvigionamento per gli importatori dell’Unione di stagno, tantalio e tungsteno, dei loro minerali, e di oro, originari di zone di conflitto o ad altro rischio».
Non è stato facile far approvare questa normativa perché qualcuno sosteneva che le norme non dovessero essere imposte dall’alto, con una legge, ma avrebbero dovuto essere «business driven», ossia una scelta delle aziende. Così non può essere. La «Convenzione di Washington» (1973), cui hanno aderito 115 paesi, tra i quali l’Italia naturalmente, vieta, ad esempio, tra le altre cose, l’importazione di oggetti in avorio o i carapaci delle tartarughe: dunque proteggiamo, giustamente, alcune specie animali, ma non ci preoccupiamo degli esseri umani resi schiavi per lo sfruttamento di alcune materie prime (tra le quali l’oro)?
La “preoccupazione” principale riguardava poi il fatto che la gestione della certificazione avrebbe inciso negativamente sull’attività produttiva delle microimprese di pochi addetti che costituiscono la maggior parte del comparto orafo. La certificazione, infatti, può essere concessa solo dopo «un audit obbligatorio, svolto da soggetti terzi e indipendenti, per controllare se siano applicate le regole del «dovere di diligenza». In pratica l’esame al quale, da anni, si è sottoposta volontariamente la 8853 S.p.A. aderendo al «Responsible Jewellery Council» (RJC).
Certamente si tratta di una verifica lunga e complessa (colloqui con il personale, esame di documenti, controllo della produzione e delle condizioni di lavoro ecc.) oltre a dover essere rifatta da capo ogni tre anni, ma, forse, semplicemente adattando l’indagine alla singola realtà produttiva e commisurandone i costi si potrebbe evitare di pesare troppo in termini di tempo e di denaro sulle piccole imprese.
In ogni caso, ben prima che, finalmente, le istituzioni approvassero questa normativa, diverse associazioni erano nate per combattere questa piaga. Tra queste appunto il «Responsible Jewellery Council» della quale fa parte dal 2012 la 8853 SpA.
Il «Responsible Jewellery Council» (RJC) è un’organizzazione no profit fondata nel 2005 allo scopo di «promuovere, nel contesto della lavorazione dei gioielli in oro e diamanti, pratiche responsabili da un punto di vista etico, sociale ed ambientale, che rispettino i diritti umani, dall’estrazione alla vendita». Il RJC certifica più di 850 compagnie della filiera produttiva dell’oro, dal processo di estrazione alla vendita al dettaglio; tra queste, ad esempio, nel campo dell’oro Argor- Heraeus SA, Johnson Matthey, Pamp SA; nel campo della gioielleria e dell’orologeria Jaeger-LeCoultre, IWC, Bulgari, Cartier, Tiffany & Co.
Crediamo sia doveroso cercare di porre sotto controllo tutta la filiera dell’oro, dal momento della sua estrazione (soprattutto) a quello della sua commercializzazione. Sembrerebbe quasi superfluo affermare che i bambini non debbano essere sfruttati, che l’ambiente debba essere salvaguardato, che i lavoratori debbano ricevere il giusto salario, ma nell’anno di grazia 2025 tutto questo non è ancora scontato. Possiamo sperare domani in un mondo dove non ci sia più bisogno di un «Responsible Jewellery Council»?
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